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[1517-1518] | Sapere, studio, ignoranza | 513 |
§ 67.
Sapere, studio, ignoranza
Platone nel Protagora, Cicerone nel De Oratore, Senofonte nei Detti memorabili di Socrate, Pausania, Plutarco, narrano che i sette sapienti, un giorno riuniti a Delfo, avrebbero scritto a lettere d’oro nel tempio di Apollo il motto:
1517. Γνῶθι σεαυτόν.1
che i Latini tradussero in Nosce te ipsum (cfr. Cicer., Tusculan. quaest., I, 22), e che attribuito fra gli altri a Chilone spartano, a Talete milesio, a Solone, e all’oracolo stesso di Apollo, fu poi ripetuto da poeti e filosofi come sentenza discesa dal cielo. Socrate fra altri la prese come fondamento della sua filosofia, e anche Giovenale (Satira XI, v.27)
E cœlo descendit Γνῶθι σεαυτόν
Ma sul vero significato di queste parole pare che già gli antichi fossero in errore. La verità è ch’esse facevano parte di due versi nei quali erano espresse le norme etiche per coloro che intendevano di visitare il Santuario di Delfo e di interrogarne l’oracolo: versi che già nel IV sec. av. C. non erano più interpretati esattamente. Lo Γνῶθι σεαυτόν in tal caso intendeva significare semplicemente questo, che prima di interrogare l’oracolo il fedele si formulasse chiaramente ciò che voleva domandare al Nume: quindi la esatta e completa traduzione non potrebbe essere che questa: «Ti sia chiaro, ciò che tu desideri con la domanda al Nume». Vedi: Partsch J., Griech. Bürgschaftsrecht, I. Th.: Das Recht des altgriechischen Gemeindestaats (Leipzig, 1909, a pag. 109).
Anche Pierre Charron disse in principio della prefazione del Libro I del suo Traité de la Sagesse (Bordeaux, 1601), che
1518. La vraye science et le vray estude de l’homme, c’est l’homme.2
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