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[1120-1124] | Parlare, tacere | 369 |
1120. Se quella, con ch’io parlo, non si secca.
ha pure tre versi, che si applicano per iperbole a indicare ogni insieme disarmonico e tumultuoso di voci:
1121. Diverse lingue, orribili favelle.
Parole di dolore, accenti d’ira.
Voci alte e fioche, e suon di man con elle.
Bellissima cosa è quella di saper parlare a tempo e con sobrietà, e giustamente la loda il saggio Salomone:
1122. Mala aurea in lectis argenteis, qui loquitur verbum in tempore suo.1
ma in ogni modo, secondo la costante opinione dei filosofi, nonchè dei proverbi, che sono la voce del popolo, il filosofo per eccellenza, il silenzio è sempre preferibile alla parola, per quanto non manchino le occasioni in cui il silenzio è equivoco e pericoloso. Così un altro proverbio dice che chi tace acconsente, ma esso deriva nientemeno che da un testo di diritto canonico, una decretale di Bonifacio viii (lib. V. tit. 12, reg. 43), del seguente tenore:
1123. Qui tacet, consentire videtur.2
cui si può mettere a riscontro l’altro testo:
1124. Volenti non fit injuria.3
paremìa giuridica tratta da un testo di Ulpiano vissuto circa l’a. 200 di C.): «nulla injuria est quae in volentem fiat». Lib. 56 ad Edict. (Dig., lib. 47, tit. 10, 1, § 5).
- ↑ 1122. La parola detta a tempo è come i pomi di oro ad un letto d’argento (intendi alle colonne del letto).
- ↑ 1123. Chi tace, sembra acconsentire.
- ↑ 1124. Non si fa ingiuria a chi vuole (cioè a chi accetta l’atto ingiurioso).
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