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[689-690] Gratitudine, ingraditudine 219

Narra Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium, lib. V, cap. III. § 2b) che Publio Cornelio Scipione Africano maggiore, dispettoso per essere stato citato dai Tribuni della plebe, e condannato a grave multa, ritirossi in volontario e ostinato esilio a Linterno; «eiusque voluntarii exilii acerbitatem non tacitus ad inferos tulit, sepulchro suo inscribi iubendo, ingrata patria, ne ossa quidem mea habes. Quid ista aut necessitate indignius aut querella iustius aut ultione moderatius? cineres ei suos negavit, quam in cinerem conlabi passus non fuerat. Igitur hanc unam Scipionis vindictam ingrati animi urbs Roma sensit, maiorem mehercule Coriolani violentia: ille enim metu patriam pulsavit, hic verecundia. De qua ne queri quidem - tanta est veræ pietatis constantia — nisi post fata sustinuit.»

Ho già parlato di Belisario che la leggenda disse ridotto a chieder un obolo ai passanti: dirò invece del doge Francesco Foscari, di cui non si conoscono le precise parole dette ai terribili Inquisitori, ma che forse non saranno state molto diverse da quelle che gli pose in bocca il solito librettista favorito di Verdi:

689.   Questa è dunque la iniqua mercede
Che serbaste al canuto guerriero?

(I due Foscari, tragedia lirica di Franc. M. Piave, mus. di Verdi, a. III. sc. 9).).

Parlando d’ingratitudine si può anche ricordare la frase popolarissima:

690.   Il a travaillé, il a travaillé pour le roi
                                        De Prusse.1

ritornello di una canzone che si cantava a Parigi contro il Maresciallo de Soubise, sconfìtto a Rossbach da Federigo il Grande nel 1757. Di qui la frase Travailler pour le Roi de Prusse che significava lavorare per niente, e quindi anche affaticarsi per un ingrato.

Dirò dei danni che seco reca l’ingratitudine, disgustando dal giovare altrui coloro che ne sono così male rimunerati, secondo la sentenza di Publilio Siro:


  1. 690.   Egli ha lavorato per il re di Prussia.