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turaron la parte, la fecero scender da parte sola nazionale, a non altro che parte degli uni stranieri contra gli altri. — Allora sali d’altrettanto la parte ghibellina; d’allora in poi diventarono grandi alcuni Ghibellini; e allora Dante il grandissimo guelfo diventò il gran ghibellino. Dico che questo spiega, non iscusa, e tanto meno non fa bello, non imitabile il mutar parte di Dante. Io credo amar Dante quanto l’ami qualunque Italiano. Ma amo più che lui quell’Italia, che egli amò pur errando; ed ammaestrato co’ miei contemporanei da cinque nuovi secoli succeduti, amo sopra ogni uomo o cosa italiana l’indipendenza d’Italia. E dico che il mutar parte è sempre grande infelicità a chicchessia; che tuttavia non è colpa anzi è virtù mutar da una più cattiva ad una più buona, o men cattiva, ma che è infelicità e colpa il mutar alla più cattiva, quand’anche l’altra abbia fatto errori, sciocchezze o delitti; bastando allora separarsi in ciò, od in tutto da essa, senza unirsi alla peggiore. E Dante si vantò di tal moderazione, si vantò d’aver “fatto parte da sè stesso;” ma noi fece, ma cadde in quella parte peggiore. Pur troppo è dimostrato irreparabilmente, a chiunque non abbia il vizio di non veder vizii negli oggetti del proprio amore, da quell’incredibil libro Della Monarchia, che è più colpevole, più fuorviato, più mediocre