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74 | la poesia di catullo. |
Labeone e Proculo fondarono quella setta, che fu chiamata dei Proculiani, e che si oppose a quell’altra diretta da Masurio Sabino.1
L’indole essenzialmente pratica dei Romani non poteva ammettere la distinzione di Seneca fra una filosofia per la scuola ed un’altra per la vita.2
Aristotile difatti, tormentato dai Greci in mille guise, non poteva essere inteso da un popolo, che dovea tutta la sua gloria alla vita politica e militare.3 La stessa scuola di Pitagora, benchè italica, non ebbe mai gran voga presso i Romani, fra’ quali, oltre a Quinto Sestio, non ebbe un illustre espositore o seguace. La filosofia d’Epicuro al contrario venne di buon’ora accolta, e Catius ed Amafanius, e poi C. Cassio, e Pomponio Attico e Velleio ed Aufidio le fecero gli onori di casa. Ed era cosa naturale. La repubblica agonizzava da un pezzo, lo stoicismo e la libertà si erano rifuggiti nello animo di Catone e di Bruto, e doveano con essi morire di suicidio. Gli animi infeminiti e fradici degli altri Romani d’allora non potevano adagiarsi meglio che nella voluttuosa dottrina del filosofo di Gargettos; fraintesa, adulterata, corrotta a bella posta; per far più comodo. Era una filosofia che corrispondeva all’arte: da prima ferrea, poi cascante; filosofia ed arte che ritraevano fedelmente la vita. E la filosofia e l’arte romana, cosi come sono, per questo solo hanno importanza, e, diciamolo pure, originalità. Non sono esercitazioni del pensiero, ma espressione e rappresentazione di quei tempi,