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di Cornelio Gallo, sulla saggezza d’Attico e la gravità di Cicerone; era il tipo delle bonae mulieres, come andavano dette; la dea del mondo elegante, la vera sacerdotessa di Venere.

Le pretiosae, le famosae, le dissolute d’ogni specie e d’ogni grado popolarono le vie di Roma: le schiave della mollezza diventarono le imperatrici dei forti Romani: l’esercito brillante delle cortigiane faceva più prigionieri e più vittime, che non aveano fatto i Galli di Brenno.1

L’esempio di tanta corruzione non potea non essere contagioso. I Romani, orsi in famiglia, divenivano agnelli nei convegni galanti, nelle comissazioni, nei passeggi della via Sacra, sotto i portici di Pompeo. Ogni più rigida matrona si persuase, che per vincere il suo uomo bisognava anzitutto piacergli, far la concorrenza alle cortigiane, rivaleggiar con loro, emularle. Era una bella scommessa. Le donne romane poteano prender due colombi a una fava: da un canto acquistar predominio sui mariti, ch’era una vendetta; dall’altro abbandonarsi alla mollezza e alla vanità: ficus avibus gratae.

Citeride fu vinta da Clodia; l’una strazia il cuore di Cornelio Gallo, l’altra calpesta il cuore del povero Catullo; ambedue, come dicea Sallustio di Sempronia, non aveano cosa al mondo, che lor fosse men cara della reputazione e dell’onestà.

  1. Dufour, loc. cit.