Molto fec’io gioco di carmi: ignara
Non è di noi la Dea, che mescer suole
Qualche dolce amarezza ai nostri amori. 25 Ma ogni lieto mio studio a me la morte
Del fratel mio rapì, dolce fratello
A me, misero, tolto. Ogni mio bene,
Dolce fratel, co ’l viver tuo si franse;
Giaccion sepolte le paterne case 30 Tutte con te, con te perîr le gioie,
A cui l’amor tuo vivo era alimento.
Così al morir del fratel mio diletto
Tutti si dileguar dal viver mio
E gli studî e i piacer. Che se tu scrivi: 35 Esser d’onta a Catullo il far dimora
Su l’Adige natìo, mentre ivi, in Roma,
Nel letto ch’ei lasciò scalda e ricrea
Le fredde membra ogni gentil garzone,
Credi, o Manlio, non già d’onta, ma degno 40 Di pietade son io. Forse potrei
Dar carmi a te, se d’ogni carme il dono
Il mio lutto rapì? Nè in compagnia
Di assai copia di libri io qui men vivo;
Io faccio vita in Roma; ivi il mio tetto, 45 Ivi la sede; ivi si svolge il filo
Degli anni miei; di tanti scrigni un solo
Mi siegue: eccoti il vero; or tu non darmi
Taccia d’alma scortese o di bugiarda,
Se al tuo doppio dimando io non compiaccio. 50 Più che non chiedi io ti darei, se alcuna
Di ciò che vuoi copia in me fosse. Io questo