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rocchè l’anima che cognosce sè medesima s’umilia; perocchè non vede di che insuperbire, e nutrica in sè il frutto dolce dell’ardentissima carità, cognosceudo in sè la smisurata bontà di Dio e cognoscendo sè non essere, ogni essere che ha, retribuisce poi a colui che è E. Unde allora pare che l’anima sia costretta ad amare quello che Dio ama ed odiare quello che egli odia.
II. O dolce e vero cognoscimento, il quale porti teco il coltello dell’odio, e con esso odio distendi la mano del santo desiderio a trarre ed uccidere il vermine dell’amore proprio di sè medesimo, il quale è uno vermine che guasta e rode la radice dell’albore nostro, sì e per sì fatto modo, che neuno frutto di vita può producere, ma seccasi e non dura la verdura sua; perocchè colui che ama sè, vive in lui la perversa superbia, la quale è capo e principio d’ogni male in ogni stato che egli è, o prelato, o suddito:
che se egli è solo ed è amatore di sè medesimo, cioè che ami sè per sè, e non sè per Dio, non può far altro che male, ed ogni virtù è morta in lui. Costui fa come la donna che partorisce i figliuoli morti; e così è veramente, perchè in sè non ha avuta la vita della carità, ed attendette solo alla loda ed alla gloria propria, e non del nome di Dio. Dico dunque, se egli è prelato, fa male, perocchè per l’amore proprio di sè medesimo, cioè, per non cadere in dispiacimento delle creature, nel quale egli è legato per piacimento ed amore proprio di sè, muore in lui la giustizia santa; perocchè vede commetterò i defetti e’ peccati a’ sudditi suoi, e pare che facci vista di non vedere e non gli correggere, o se pur li corregge, li corregge con tanta freddezza e tiepidità di cuore, che non fa cavelle F; ma è uno rampiastrare il vizio, e sempre teme di non dispiacere e di non venire in guerra: tutto questo è, perchè egli ama sè, ed alcuna volta è che essi vorrebbero fare, pur con pace, io dico che questa è la più pessima crudelità che si possa usare; se