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del cuore, permectarò che ’l membro della lingua parli per sfogamento del cuore e per gloria e loda del nome mio; si che parlando non parla, la mano toccando non tocca, e’ piei andando non vanno; tucte le membra sonno legate e occupate dal legame e sentimento de l’amore. Per lo quale legame sonnosi soctoposte a la ragione e uniti con l’affecto de l’anima, ché, quasi contra sua natura, a una voce tucte gridano a me, Padre etterno, di volere essere separate da l’anima, e l’anima dal corpo. E però grida, dinanzi da me, col glorioso di Pavolo: «O disaventurato a me, chi mi dissolverebbe dal corpo mio? Perch’io ho una legge perversa che impugna contra lo spirito».

Non tanto diceva Pavolo della impugnazione che fa el sentimento sensitivo contra lo spirito, ché per la parola mia era quasi certificato quando gli fu decto: «Pavolo, bastiti la grazia mia». Ma perché il diceva? perché, sentendosi Pavolo legato nel vasello del corpo, el quale gl’impediva per spazio di tempo la visione mia (cioè infino a l’ora de la morte), l’occhio era legato a non potere vedere me, Trinitá etterna, nella visione de’ beati immortali che sempre rendono gloria e loda al nome mio, ma trovavasi fra’ mortali che sempre offendono me, privato della mia visione, cioè di vedermi ne l’essenzia mia.

None che esso e gli altri servi miei non mi veggano e gustino, non in essenzia, ma in affecto di caritá in diversi modi, secondo che piace a la bontá mia di manifestare me medesimo a voi; ma ogni vedere, che l’anima riceve mentre che è nel corpo mortale, è una tenebre a rispecto del vedere che ha l’anima separata dal corpo. Si che pareva a Pavolo che ’l sentimento del vedere impugnasse il vedere dello spirito, cioè che ’l sentimento umano della grossezza del corpo impedisse l’occhio de l’intellecto, che non lassava vedere me a faccia a faccia. La volontá gli pareva che fusse legata a non potere tanto amare quanto desiderava d’amare, perché ogni amore in questa vita è imperfecto infino che non giogne a la sua perfeczione.

None che l’amore di Pavolo o degli altri veri servi miei fusse imperfecto a grazia e a perfeczione di caritá (ché egli era perfecto), ma era imperfecto ché non aveva sazietá nel suo amore;