riprendono ancor quello che non merita riprensione, ad alcuni che
mi biasimano perch’io non ho imitato il Boccaccio, nè mi sono obligato
alla consuetudine del parlar toscano d’oggidì, non restarò di
dire, che ancor che ’l Boccaccio fosse di gentil ingegno, secondo
quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con discrezione ed industria,
nientedimeno assai meglio scrisse quando si lasciò guidar
solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale, senz’altro studio
o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si
sforzò d’esser più culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori
affermano, che esso nelle cose sue proprie molto s’ingannò di giudicio,
tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore, ed in molto
quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella maniera
di scrivere che in lui è ripresa da chi nel resto lo lauda, non
poteva fuggire almen quelle medesime calunnie che al proprio Boccaccio
son date circa questo; ed io tanto. maggiori le meritava,
quanto che l’error suo allor fu credendo di far bene, ed or il mio
sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel
modo che da molti è tenuto per buono, e da esso fu men apprezzato,
parevami con tal imitazione far testimonio d’esser discorde di
giudicio da colui che io imitava: la qual cosa, secondo me, era inconveniente.
E quando ancora questo rispetto non m’avesse mosso,
io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa
alcuna di maniera simile a questi Libri del Cortegiano: e nella lingua,
al parer mio, non doveva; perchè la forza e vera regola del
parlar bene consiste più nell’uso che in altro, e sempre è vizio usar
parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente,
ch’io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a’ suoi tempi
s’usavano, ed or sono disusate dalli medesimi Toscani. Non ho ancor
voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d’oggidì;
perchè il commercio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di
trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, così ancor
nuovi vocaboli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla
consuetudine ammessi o reprobati: e questo, oltre il testimonio degli
antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole
franzesi, spagnole e provenzali, ed alcune forse non ben intese
dai Toscani moderni; che chi tutte quelle levasse, farebbe il libro
molto minore. E perchè, al parer mio, la consuetudine del parlare
dell’altre città nobili d’Italia, dove concorrono uomini savii, ingegnosi
ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo dei stati, di
lettere, d’arme e negozii diversi, non deve essere del tutto sprezzata:
dei vocaboli che in questi lochi parlando s’usano, estimo aver
potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli che hanno in sè grazia,