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Demetrio. Oh Satiro da bene! Oh messer Tindaro, io v’ho pur ritrovato una volta!

Satiro. Avvertite che non è piú Tindaro.

Gisippo. Dice bene il vero che io non son piú desso.

Demetrio. Perché?

Satiro. Si fa chiamar Gisippo.

Demetrio. Oh, si, si, mi par ben fatto per ogni rispetto.

Gisippo. Donde venite? E che andate facendo?

Demetrio. Vengo, si può dir, del mondo, in tanti luoghi sono stato; vo’ cercando di voi, e portovi buone nuove.

Gisippo. Altro di buono non mi potrete portare che la vostra presenza.

Demetrio. So che questa v’è cara, ma piú caro vi debbe essere il compimento di tutti i vostri desidèri.

Gisippo. Dite cosa che non può essere.

Demetrio. Come non può essere che la Giuletta è vostra?

Gisippo. Mia non è ella e non può piú essere.

Demetrio. Domine, che voi non la vogliate ora che i suoi se ne contentano! Avete a sapere che, tolta che noi l’avemmoj giunsero lettere del padre e del zio, di qua d’Italia, che vi fosse sposata; e un giorno di piú che indugiavamo, non bisognava rapirla.

Gisippo. Ahi, Fortuna, Fortuna, questi sono de’tuoi tratti ! Delle disgrazie, che tu mi mandi, non ne coglie una in fallo; le grazie, o non vengono mai, o non arrivano a tempo.

Demetrio. La povera madre, ricevute lettere di qua, fu molto dolente della vostra partita, e, sentendo che vi faceva cercare, mi son mosso a cercar di voi, per ricondurmi ancor io a correre una medesima fortuna con esso voi ; perché, scoperto che fu che io tenni le mani alla vostra rapina, la corte m’ha sempre perseguitato e la fortuna maggiormente. All’ultimo, dopo molte disgrazie, uscito di man di mori, or ora son giunto qui e mi sono abbattuto appunto nel padre e nel zio di Giulelta. Ho ragionato con essi e, fra quello che ho ritratto da loro e quel che so del paese, v’assecuro che la Giuletta sará vostra, con buona grazia d’ognuno. Voi piangete, messer Gisippo?