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22 Open source, software libero e altre libertà


Ma ogni situazione di protezione deve trovare un limite, o si scade nell’arbitrio, nella sopraffazione, o ancor peggio nel FUD. Siamo al punto di non poter oggi girare un film senza dover chiedere almeno un centinaio di permessi, per inquadrare un ponte, un edificio, un poster, un prodotto industriale. Di non poter creare un prodotto di un qualsiasi tipo senza dover prendere in licenza centinaia, migliaia, decine di migliaia di brevetti, diventati in molti campi un freno anziché un incentivo all’innovazione.

La situazione è quella riassunta molto bene da Lawrence Lessig col termine “tragedia degli anticommons”, ribaltando un’espressione resa popolare dal titolo di un lavoro di Garret Hardin “La tragedia dei commons” in cui descriveva come il libero (meglio: sregolato) utilizzo di risorse comuni porta alla distruzione delle risorse e all’impoverimento degli utilizzatori. Ma Hardin descriveva i beni fisici, non i beni intellettuali, dove, anzi, la creazione di un “common” consente la moltiplicazione del valore di quel bene.

L’openness, nell’accezione principale, è appunto questo: far rientrare quanto più possibile in un terreno di libero accesso, di libero utilizzo, di libera modifica, di libera redistribuzione, ciò che sarebbe invece ristretto e proprietario. Creare, in ultima analisi, dei commons.

Gli strumenti dei commons sono strumenti legali

I principali strumenti con cui si creano i commons sono di tipo legale. Paradossalmente, è diventato oggi difficile, in certi casi addirittura macchinoso, far sì che un bene intellettuale sia liberamente utilizzabile. In certi ambiti e in molte legislazioni ciò è addirittura