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— Che bellezza! Che pace! Si sentiva rivivere.

E mentre facevano il giro della stanza, Marietta le ruzzolava dietro la poltrona, se la padroncina avesse voluto riposarsi.

— Lo annoio troppo — gli diceva Giacinta.

— Nemmeno per sogno. Solamente non vorrei vederti ricominciare... Dev’esserci qualcosa lì dentro, in quel cuoricino, che tu non vuoi dirmi.

Giacinta rispose di no, col capo.

Così giunse fino a spazientirsi quando lo scalpiccio del cavaliere tardava a farsi udire nel corridoio che conduceva in camera.

Aveva ripreso forze e colorito. Quelle esitazioni, quelle fissazioni erano già svanite. Anzi ora nella voce e nelle maniere di lei c’erano un che di brusco e d’imperioso.

— Il tifo mi ha temprato come l’acciaio — diceva a Marietta, allorchè questa le raccomandava di darsi coraggio, di farsi forza.

Però il vecchiaccio maneggiava quell’acciaio come una pasta; benevolo, paterno, pieno di compassione. Marietta cominciava a diventarne gelosa.

— Perchè ora colui aveva sempre qualche cosa da dire alla padroncina, in segreto?

Non osava domandarne ma si struggeva di saperlo. Entrava in camera senza rumore, come un’ombra, per afferrare una parola, una frase di quelle conversazioni a mezza voce... E un giorno intese Giacinta che commossa diceva:

— A chi rivolgermi?... Al babbo?

Il Mochi scoteva la testa.

— Alla mamma?

— Che! Che! Quella mamma!...

Egli torceva il muso.