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mattina ho fatto, da me sola, il viaggio dal letto alla poltrona.
Un giorno egli trattenne più del solito, stretta tra le sue mani, la mano di Giacinta.
— Povera manina! Com’è ridotta scarna! Ma la ridurremo ben presto pienotta, una manina di velluto.
E gliel’accarezzava, quasi cercasse di scaldargliela.
Giacinta fece atto di volerla ritirare. Il Mochi glielo impedì:
— Il calore ti fa bene!
— Che calore può avere quella mummia? — pensava Marietta scrollando il capo, mentre si aggirava per la camera ravviando alcuni oggetti con quella sua aria di discrezione che chiamava sulle labbra del Mochi un risolino di compiacenza.
— Marietta, un po’ di ghiaccio — diceva, a intervalli, Giacinta. Ma il Mochi la preveniva, accorrendo al tavolino dov’era il vassoio di cristallo col ghiaccio ridotto in pezzetti e il cucchiaino di argento. Giacinta stendeva la mano.
— Sono qui per nulla, cattiva?
E le presentava delicatamente il cucchiaino col ghiaccio davanti la bocca.
— Eccomi tornata bambina. Bisogna perfino imboccarmi! Grazie.
Allora Mochi riprendeva il discorso interrotto, raccontando le meraviglie di Parigi e di Londra, e le sue avventure a Siviglia, quando poco era mancato che un torero geloso non l’ammazzasse.
Però da qualche giorno, si accorgeva che, di tratto in tratto, l’attenzione di Giacinta gli veniva meno. Gli occhi della ragazza si fissavano, senza sguar-