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— Sì.
— Povero babbo!
Il signor Marulli stava lì, a covarla con gli occhi nelle ore libere, tirando fuori spesso l’orologio. Poi scappava per l’ufficio, esattissimo.
Ma il cavalier Mochi non più affacciava all’uscio la punta dei suoi baffi soltanto, nè andava subito via. Entrava in camera tutt’i giorni e vi rimaneva a lungo, spingendo una seggiola accanto alla poltrona dove Giacinta, che aveva lasciato il letto da una settimana, stavasene sdraiata, con le ginocchia avvolte in una coperta di lana, e uno scialletto sulle spalle.
— Sempre meglio?
— Un pochino... Non ho fretta.
— Benone.
Marietta non lo poteva patire per quell’occhialino che gli faceva fare una contrazione alla guancia sinistra e gli dava un’aria beffarda, con quei baffi appuntati, con quel collo incastrato nell’alto goletto.
A Giacinta, però, quel vecchio raffinato, ripicchiato, vestito sempre all’ultima foggia, che aveva viaggiato tanto e parlava così bene, piaceva moltissimo. E appena lo vedeva arrivare, scappato dal Consiglio di amministrazione della Banca agricola dove egli si annoiava, gli stendeva una mano che il Mochi stringeva con un modo tutto suo, una vera carezza.
— Hai dormito bene?
— Benissimo.
— L’appetito?
— Non c’è male.
— E l’animo?
— Tranquillo. Tornano anche le forze. Questa