Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 239 — |
rossa in viso, la precedeva col lume verso le stanze d’Andrea. Senza darle il tempo d’annunziarla, si spinse avanti, attraversando rapidamente il salottino, chiudendo dietro di sè l’uscio della camera da letto dove Andrea si trovava. Egli, allibito, non si mosse.
— Perchè vai via?
— Zitta! Non alzare la voce!
— Non temere. Non vengo a farti una scenata. Lo so: tutto è finito tra noi. Ma partire così, di nascosto, oh! è un’indegnità.
Aveva buttato in un canto la veletta e lo scialle. La spalliera della sedia su cui appoggiava le mani, scricchiolava.
— Hai torto. Avresti dovuto avere il coraggio di confermarmi colle tue labbra quello che tante volte ti dissi d’averti letto nel cuore. Perchè hai mentito? Perchè vuoi ora lasciarmi sotto l’insulto d’un abbandono che mi renderebbe favola delle persone che ho sfidato a viso aperto unicamente per te? Confessalo: stai per commettere un’infamia inescusabile. Ti trattenevo con altre catene che queste mie braccia d’amante? Ho forse abusato del tuo affetto? Mi son forse risparmiata in nulla, da farti così presto scordare ch’io son di quelle che si danno una volta e per sempre?
— Non alzare la voce! — balbettò Andrea.
Era alla tortura. Temeva che Elvira non origliasse, per curiosità femminile.
— Resterai, è vero? — riprese Giacinta, accostandoglisi di più. — Per una settimana, per due, tre giorni, finchè non avremo trovato un pretesto! Facciamo almeno le viste di dividerci amici. Sarò tranquilla; mi sforzerò. Eviteremo uno scandalo. Resterai, dunque?... Ma rispondi! Resterai?