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A un tratto s’accostò alla gabbia del canarino e l’aprì. L’uccellino, addomesticato, uscì fuori, saltandole sul dito, beccandoglielo delicatamente.
Quando Giacinta lo punse con lo spillo avvelenato, ei mostrò appena di risentirsene. Beccò il pezzettino di zucchero immollato nell’acqua ch’ella gli porgeva; e, rientrato nella gabbia, continuò a saltellare qua e là, irrequietamente, dopo aver intinto il becco nel beverino e levato il collo per sorbire l’acqua.
Giacinta, pallida, strizzandosi le mani ghiacce, attendeva.
Dopo alcuni minuti, il canarino non saltellò più. Appollaiato sulla stecca, volgeva la testina attorno, come preso da stupore e da stanchezza. Stirò una zampina, si frugò col becco tra le piume del petto, nascose la testa sotto un’ala... e cadde in fondo alla gabbia.
Immobile col cuore che batteva forte, gli occhi pieni di lagrime, Giacinta quasi credeva di aver assistito alla propria agonia:
— Oh!... Morire in quel modo era quasi un addormentarsi!
XIII.
Andrea rincasò tardi.
— È venuta la solita cameriera, — gli disse Elvira. — Lo cercava con urgenza. Quando le dissi che sarebbe partito col treno delle undici, non volle più attendere. Tornerà.
Andrea non potè frenare un movimento di dispiacere.