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d’affetto, tutte le sue carezze, tutti i suoi baci, come inutili cenci, a ludibrio contraffacendola, sbertandola fra ringhi e fischi, quasi volessero chiudere con tal chiasso indecente quell’ultima scena del suo dramma.

— E poichè non poteva!... E poichè non sapeva... Ah! meglio morire!

La testa le scoppiava. La bocca era riarsa. Ella aveva già avvertite delle interruzioni nella sua intelligenza, lungo la nottata, quando il passato e il presente le erano, a poco a poco, spariti dinanzi; quando, stupidamente fissa verso un punto luminoso, un oggetto vicino, un fiore della tappezzeria, era rimasta a guardare a lungo, a lungo, senza vedere, senza capire, proprio come una pazza...

— Meglio morire!

Il castello incantato della sua passione era crollato, da cima a fondo, alle terribili parole di Andrea. Perchè più vivere, dunque?

— Meglio morire!

Cessò di piangere, s’asciugò il volto. Aperti i cristalli, aspirò avidamente l’aria fresca che invadeva la camera: poi corse all’armadietto d’ebano.

— Dev’essere qui — mormorava, rovistando i cassetti. — Deve essere qui.

Frugava, disfaceva gl’involtini che le capitavano tra le mani, ributtando indietro oggetti e carte, impazientissima. Non trovava nulla. Arrivata all’ultimo cassetto, lo vuotò intieramente; dal fondo un boccettina ruzzolò.

— Eccola!

Ella sorrideva tristemente, scotendo il capo. Il cuore le batteva forte. Una lassezza dolcissima, simile a quella provata alcune volte nei più bei momenti di felicità, le rammollava gambe e braccia,