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— Ti pare una cosa possibile? Non è, per lo meno, un’esagerazione?
— Tu prendi i romanzi sul serio!
— Ma infine, sul serio o no, è assurdo che una donna parli e agisca in questo modo. Riflette troppo, si osserva troppo da sè. La passione ragiona forse?
— Dovresti dirlo all’autore.
Egli non voleva discutere. Temeva che dai finti casi del romanzo non si passasse — gli era accaduto due volte — al loro caso reale. Perchè inasprire la piaga?
— Dovresti dirlo all’autore — ripeteva, senza voltarsi.
— Non l’ho mica con te!... Mi fai stizza.
Giacinta chiudeva il libro, imbronciata; e il silenzio tornava a pesare nell’aria del salotto, sinistramente Andrea, osservando con la coda dell’occhio, sotto le palpebre abbassate, l’irrequieto incresparsi delle labbra, l’abbuiarsi degli occhi di lei, dove passavano e ripassavano nuvoli di dispetto, non osava neanche rimettersi il sigaro alla bocca, per non provocare una scena. I diverbi già scoppiavano così facilmente tra loro! Così facilmente le parole, le frasi più dure prorompevano dalla collera di tutti e due!
— Non era un divertimento!... E il suo destino lo teneva lì, legato mani e piedi, peggio d’uno schiavo!
Allora egli scattava dalla poltrona, per riscotersi, per difendersi contro la tormentosa oppressione di quell’uggia...
— Sei già stanco... d’annoiarti? — gli diceva Giacinta.
— Chi dice che m’annoio?
— Lo veggo, tuo malgrado.
Andrea si lasciava ricadere sulla poltrona: