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lati col caffè; mettendogli in mano il cucchiaio, se un pezzettino di biscotto cascavagli nella zuppiera; badando a rincalzare sulla rimboccatura delle coperte, che il conte scompigliava, l’altro tovagliolo messovi sopra perchè non le insudiciasse. Egli intanto mangiava golosamente, senza alzare il capo, lanciando bieche occhiate ai biscotti e alle mani di Giacinta, se mai non gliene rubasse qualcuno.

— Grazie, grazie! — disse all’ultimo. — Ora mangiate voi... Non volete mangiare?

Giacinta uscì di camera lentamente, voltandosi a ogni due passi. Quella creatura umana tornata a rannicchiarsi sotto la coltre con la voluttà d’un animale sazio di cibo, le stringeva il cuore.

— Come sei bella quest’oggi! — le disse Andrea, vedendola entrare in salotto e andandole incontro.

Giacinta alzò la testa e si fermò, tutto commossa dall’orgogliosa soddisfazione che ravvivava così inattesamente la moribonda fiammella della sua speranza:

— Ah!... Poteva dunque strappargli ancora una parola d’ammirazione?

Da più giorni un penoso silenzio rattristava il salotto, quando ella e Andrea rimanevano soli, l’uno di faccia all’altra; e Andrea, disteso sulla poltrona, con gli occhi mezzo addormentati, le braccia stirate sui bracciuoli, le mani ciondoloni, lasciava sfuggire annoiatamente gli intermittenti sbuffi di fumo del suo virginia.

Giacinta riprendeva spesso, ad alta voce, la lettura d’un romanzo, per forzarlo a tendere l’orecchio, a prestare attenzione, per impedirgli così d’andarsene via col pensiero lontano da lei. Talora, smettendo di leggere, gli domandava a un tratto: