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aspettava; poi rannicchiatosi tra le lenzuola, chiuse gli occhi e parve dormisse.

Giacinta gli si era seduta dirimpetto, presso la finestra, ripetendo le stesse risposte alle stesse domande incoerenti, rispondendogli sempre con dolce pazienza, quantunque lo spettacolo di quella creatura umana ridotta a una vita quasi animale, la facesse soffrire. E restava lì, con gli occhi intenti su quel corpo immobile, agitata da una idea che non le riusciva di scacciare, dall’idea che il povero cervello di lei non dovesse, un giorno o l’altro, sconvolgersi parimenti, come un orologio in cui siasi rotto qualcosa.

— Certe volte... oh Signore!... le pareva di impazzire?

E col restar lì, costretta soltanto dall’impero della propria volontà, ella intendeva di fare un grand’atto d’espiazione, una vera penitenza, a fine di scongiurare quella cattiva stella da cui sentivasi minacciata più da vicino in quei giorni...

— Lo capiva da certi indizi, chiaramente!

Il conte riaperse gli occhi, brontolando:

— Mi lasciano solo! Mi fanno patire la fame!

Una forte scampanellata fece accorrere Battista.

— Il conte non ha ancora fatto colazione?

— La colazione è già pronta, signora contessa. Ma io non sapevo se...

— Portatela subito.

Accostò ella stessa alla sponda del letto il tavolinetto a tre piedi e vi stese il tovagliolo.

— Suonerò, quando avrà finito, — disse a Battista, levandogli di mano il vassoio con la zuppierina.

Deposto il manicotto sulla poltrona, ella serviva il conte, porgendogli ad uno ad uno i biscotti ch’egli andava intingendo nei tuorli di uova sbattuti mesco-