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Il conte, ancora a letto, sollevatosi sul gomito, a bocca aperta, agitando la punta della lingua fuori dei denti, la guardò un pezzetto con aria attenta e concentrata: non la raffigurava. Il malefico germe, trasmessogli nel sangue dalla sua nobile razza deperita, s’era sviluppato in cinque anni con sì spaventevole rapidità, ch’egli già pareva un vecchio decrepito; si reggeva male sulle gambe infrollite, connetteva poco e riconosceva le persone soltanto a intervalli.

— Battista!... Battista!... — cominciò a urlare.

— Che vuoi, Giulio? Son qua io, — disse Giacinta.

Ma non osava accostarglisi. Un senso di paura e di repugnanza invincibile la inchiodava dappiè del letto, a quattro passi di distanza.

— Battista!... Battista!...

Il conte si voltava di qua e di là, chiamando, brancicando la coltre, cercando sulla seggiola vicina qualcosa che non trovava:

— Il mio vestito?... Mi han portato via il vestito...

— Rimani a letto; il dottore vuole così.

— Mi han portato via il vestito, — egli ripeteva. — Siete voi il dottore?... Tastatemi il polso... Mi han portato via il vestito!

Ogni giorno, a ora fissa, verso le undici, la idea di levarsi da letto, per andar via, gli si ridestava ostinatissima nel cervello ringrullito:

— Che faccio qui solo?... La contessa mi aspetta... Voglio tornarmene a casa mia...

— Ma non t’accorgi che son qui, e che sei in casa tua?

— Sei qui?... Oh, bene!... Mi fa proprio piacere... Battista!... Battista!... Non trovo più il mio vestito.

Urlò, divagò, ancora un pezzo, per quella fissazione di tornarsene a casa sua dove la contessa lo