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punti della sua calza; Elvira e il signor Domenico giuocavano a dama.
— Perde, è vero?
— Vinco invece.
— Il babbo, troppo indulgente, la fa vincere a posta.
— Vinco per valore. Ho vinto anche lei.
— Una sola volta.
— Due volte. Ha la memoria corta, a quel che pare.
— Ma io potrei darle scacco in tre mosse, giocata per giocata.
— Si provi.
Allora quella testina chinata sulla scacchiera, con le ciocchette dei capelli che le adombravano la fronte; la bella mano dalle dita affusolate, che muoveva i pezzi bianchi lestamente; il tiepido alito che qualche volta gli arrivava sulla faccia, se le si accostava inavvertitamente un po’ troppo, gli davano una dolce sensazione di calma, d’intimo benessere; gli richiamavano in mente i giorni felici della sua fanciullezza, tra la mamma e le sorelle nella casa nativa, sulla riviera di Posillipo tutta smagliante di sole.
Una mattina, Andrea s’era fermato sull’uscio di quella stanzina tagliata nell’anticamera con un paravento.
Elvira, smesso di cucire, accarezzava il canino nero e peloso che, raggomitolato sul canapè accosto a lei, continuava a ringhiare.
— Non le vuole bene, — gli disse. — Ha paura degli estranei.
— Non ha imparato a conoscermi, — rispose Andrea — ma ci faremo presto amici. E lei come sta?