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A vederlo così, a sentirlo parlare a quel modo, Giacinta più tosto s’irritava:
— Mi prendi dunque per una bimba? È inutile. Ho aperto gli occhi! Le belle parole non mi lusingano più!
Voleva morire, lo ripeteva spesso:
— Sarà dolce riposare accanto alla propria creaturina, sotto le zolle umide e fresche, nel gran silenzio, nel gran buio!...
— Ma che discorsi son questi? — rispondeva Andrea, rivoltandosi. — Io non aveva mai creduto che quella figliolina occupasse un sì gran posto nella nostra vita, nella mia, specialmente, lo confesso; ma dal mio dolore capisco che il tuo dev’essere immenso. Però, bisogna prendere il mondo com’è. Che si rimedia?
Giacinta lo lasciava dire. Se ne stava sola sola nella penombra della camera, rannicchiata su d’un canapè.
Non voleva nè pensare, nè accorgersi di vivere; e si affondava, con un accanimento dolorosamente voluttuoso, in quel suo torpore che somigliava alle sonnolenze snervanti di certe tiepide giornate di autunno.
Quando Andrea o qualche amica veniva a riscuoterla, levavasi a malincuore, con lentezza da sofferente; talvolta non si levava neppure, e riceveva le amiche a quel modo, scusandosi:
— Mi sento tutta rotta, fiaccata... Non so. Così, provo un po’ di sollievo.
— Invece t’impoltronisci, ti sfibri, — le disse un giorno la signora Villa.
— Che male c’è? Tanto, non ho più voglia di nulla!
Il cicalìo della signora Villa e di Elisa Gessi le