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— Aveva, certamente, la scusa di visitare tutti i giorni il conte ammalato. Ma, entrato in casa Grippa, quel benedetto dottore non trovava più il verso d’andarsene. Ella li aveva sorpresi parecchie volte, Giacinta e lui, che conversavano nel salotto, intimamente. Anzi, Giacinta un giorno, quasi per scusarsi, le aveva detto: — È il mio confessore, un confessore troppo severo! — Sia. Ma quel confessore biondo e giovane non poteva garbare a Gerace...

Il Follini, invece, studiava Giacinta con la fredda curiosità d’uno scienziato di fronte a un bel caso. L’eredità naturale, le circostanze sociali glielo spiegavano fino a un certo punto. Ma per lui, già discepolo del De Meis all’università di Bologna, per lui che, se non credeva nell’anima immortale, credeva all’anima e allo spirito, una passione come quella non poteva esser soltanto il prodotto delle cellule, dei nervi e del sangue. E voleva scoprirne tutto il processo, l’essenziale. Gli interessava pel suo libro Fisiologia e patologia delle passioni a cui lavorava da due anni. Perciò, quando gli capitava, mettevasi a interrogare destramente Giacinta, a confessarla, com’ella diceva, ingegnandosi di sorprendere i sintomi nella loro spontanea attività.

Una sera che la contessa pareva allegrissima e faceva scoppiettare attorno a lei le sue frasi vibranti e frizzanti, il dottore s’era seduto in un angolo, fuori di vista, per osservarla con più comodo.

— No, quell’allegria non era sincera; glielo dicevano gli occhi di lei, che lampeggiavano stranamente, le labbra le si inaridivano così presto.

Appena Giacinta si avvide delle pupille quasi severe che le stavano addosso, cominciò, gradatamente, a provare un impaccio anche nei movimenti. Sforzatasi a continuare il discorso, si era sentita