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— Chi vorrà andare a morir di noia fra quelle mummie aristocratiche?

Al Caffè della Pantera, mentre il Merli, il Ratti, il giovane Porati, Gessi e il capitano Ranzelli discutevano seriamente se dovevano o no intervenire, era capitato il Mochi, dinoccolato, col suo monocolo all’occhio sinistro, che gli dava l’aria maligna d’un Mefistofele andato a male.

— Come? C’è chi pensa di non intervenire? — egli disse. — Ma è il colmo della sciocchezza! Ah, se avessi metà degli anni che ho addosso! Vedreste! Siete giovani, e abbandonate il campo? Trent’anni fa, o Gerace non avrebbe avuto quella buona fortuna, o essa sarebbe già finita da un pezzo. Trent’anni fa, gli avremmo dato il gambetto in quindici giorni. Ed ora tocca a me, a me che strascico le gambe, servir di sprone alla gioventù! Ma non capite che uno, uno solo, farebbe la vendetta di tutti?

— Viva sempre i veterani! — esclamò il Ratti entusiasmato.

E quel primo mercoledì si trovarono tutti in casa Grippa, come tanti diplomatici venuti lì ognuno per conto del proprio governo, per dare un’occhiata di ricognizione, senza destar sospetti l’uno nell’altro, preoccupati della rivincita.

Mentre la baronessa Sturini era riuscita a raggranellare appena una dozzina di vecchie carcasse e pochi giovani che, per dovere di casta, non si eran potuti esimere dall’andare a sbadigliare discretamente fra loro, in casa Grippa, invece, era accorsa in folla la ricchezza, la magistratura, l’esercito, l’amministrazione, la stampa (rappresentata dal direttore e dall’unico redattore della Gazzetta popolare) la gioventù, le belle donne; insomma quanto la piccola città possedeva di meglio.