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— Che! Quegli ornati non sono in rilievo? Ma, per accorgersene, bisogna toccarli!

Il conte sfogava la sua soddisfazione:

— Quelle stanze?... Delle scatoline da confetti! Come vi si dee stare calduccini l’inverno! E che bel fresco d’estate, con tanti riscontri di usci e finestre!

— Vi paion stanze queste qui?

La signora Marulli non poteva patire la moderna gretteria dello spazio.

— Ecco: rizzandosi sulla punta dei piedi, si tocca quasi la vôlta!

— O che? Preferite gli stanzoni antichi, un tempio! dagli usci immensi, dalle finestre immense, che rimangon sempre mezzi al buio? Li conosco, pur troppo! Nel palazzo di famiglia, — il babbo fece bene a venderlo, — eran tutti così. Quando ero bambino se dovevo traversarli da solo, morivo dalla paura. In camera di mia madre, con la tappezzeria di cuoio di Cordova impresso a cuoricini dorati, con vecchi quadri alle pareti, con i mobili d’ebano, intarsiati di madreperla, e il letto di legno intagliato che pareva un catafalco sotto le cortine di raso giallo... in camera di mia madre, mi pareva di trovarmi in un luogo incantato; non vedevo distintamente neanche il viso di lei. Oh, non me ne parlate! Grazie tante!

— Sì, per certe comodità, non voglio contraddirvi, c’è un progresso. Ma non è da far confronti. Questa qui la chiamiamo una palazzina? Un alveare dovrebbero dire!

E portavano attorno, per le stanze vuote, la interminabile discussione.

Giacinta taceva.

Finalmente!... Finalmente aveva un cantuccio suo proprio!