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bello rovesciato davanti alla porta della casa rustica, aguzzava gli occhietti maliziosi verso quel diavolino di signora che non si lasciava chiappare.
XI.
Gli sconcerti della gravidanza la costringevano a letto fino a tardi.
Rannicchiata fra le coperte, nei momenti di tregua, Giacinta lasciavasi andare a seconda delle deliziose fantasticherie provocate dal mistero vivente che le si agitava nel seno.
— Chi l’avrebbe immaginato! C’era dunque al mondo un’altra catena più forte dell’amore! Quella piccola creatura, sangue del loro sangue, carne della loro carne, li confondeva ora tutti e due, Andrea e lei, in un corpo e in un’anima sola! Ora soltanto si possedevano intieri, per sempre!
E restava come in orecchio in quella festa, in quella vera ebbrezza che le montava al cervello dalla profondità del seno in gestazione: un dilatarsi, un elevarsi del corpo, voluttuosamente, tra il fluttuar dello sconcerto prorompente di tratto in tratto.
Passava la mattina mutando posto da una poltrona all’altra, con una grande stanchezza nelle ossa, senza voglia di far nulla, sopraffatta dagli intimi sbalzi che le raddoppiavano la pulsazione e le fiorivano i pomelli delle gote sotto il bruno della pelle; rapita da quella voce soave d’amore che le cantava internamente, quasi voce infantile del suo Andrea, ch’ella ascoltava con serene compiacenze di amante riamata, miste ad anticipate tenerezze di madre.