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— Perchè non volete? Perchè?
Rifugiata in quell’angolo del salottino, fremente d’indignazione, Giacinta spiava uno scampo:
— Lasciatemi uscire! Lasciatemi!
Avrebbe anche gridato al soccorso nel vederselo dinanzi, a pochi passi, piantato sulle gambe allargate, con le braccia aperte, e con lividi luccicori di fosforo negli occhi, sotto il ciuffo di capelli rovesciatoglisi sulla fronte; ma la rabbia e il dispetto le avevano inaridita la gola.
E si lasciò prendere tra le braccia, cedendo, andando quasi trascinata verso il canapè, dove il conte si mise a baciarla sulle guancie e sulla nuca, ripetutamente, insaziabilmente:
— Giacinta! Giacinta!
Oh! Quei baci la violavano!... E il nome di Andrea le rigurgitava in gola, per buttarlo in faccia al conte:
— Basta! Non vedete che soffro?
— Perdono, contessa! Perdono!...
Colpito da quel grido angoscioso, egli si era subito tirato da parte. E, intimidito, a testa bassa come un fanciullo sgridato, si confondeva ora in mille scuse:
— Aspetterò... quando vorrete voi... Perdono!... Rimettetevi; vien gente!
— Che ho mai fatto! — esclamò Giacinta un’ora dopo, torcendosi le mani, appena il conte e la signora Teresa la lasciarono un momento sola col Gerace, per accompagnar la Clerici e la Mazzi che andavano via.
— Che ho mai fatto!... Che terribile tortura sarà!...
— Oh, Andrea, Andrea!... E sono stata io!... Io stessa!
— Zitta, per carità! Ritornano! — disse Andrea.
— Che me n’importa?