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Il conte gli rispondeva con dei gesti negativi e intanto gli faceva largo per lasciarlo passare. Ma Giacinta levatasi in piedi, ripresa la mano al suo babbo, gliela premeva con insistenza.
— Ti senti male? — le domandò il signor Marulli.
— Sì, babbo, un pochino.
E si lasciò ricadere sulla seggiola, bianca bianca in volto, con un lieve tremito per tutta la persona.
— Perchè ti sei alzata? Hai fatto male, malissimo.
— Che disgrazia! — ripeteva il conte, ritto in piedi dinanzi a lei, osservandola con tanto d’occhi.
— Sarà debolezza, — disse il signor Paolo — la fatica, l’agitazione dei giorni scorsi... È così gracile! Vuole scommettere, che non ha ancora preso nulla?... Se lo dicevo! A questo modo starebbe male anche un colosso.
Il conte, per mandarlo via più presto, accompagnandolo fino all’uscio, gli aveva sussurrato in un orecchio:
— Ci pensi lei!...
Non appena lo vide slanciarsi per sedersele accanto, Giacinta si strinse tutta e chiuse gli occhi. Poi, al contatto di quelle mani dalla pelle liscia e fredda, al fiato caldo che le alitò sulla faccia, tentò subito di rizzarsi, come atterrita da un imminente pericolo; ma il conte la tratteneva, balbettando parole inintelligibili. A un tratto, presale la testa fra le mani, la baciò sulla bocca.
Giacinta lo respinse, senza saper quel che si facesse, diventata di bragia; e gli sfuggì, a traverso le seggiole, correndo verso l’uscio.
— Siate buona, contessa!... Giacinta sii buona! — supplicava il conte, sbarrandole l’uscita, tendendo verso di lei le lunghe braccia, aprendo e chiudendo le mani: