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— Sì, vuol nevicare.

Il conte gli faceva l’eco, per dir qualche cosa, continuando a guardare con gli occhi smorti sua moglie che taceva.

La conversazione languiva. Il Marulli avrebbe voluto trovare qualche barzelletta da far ridere gli sposi; ma il conte gli metteva soggezione col suo titolo, con la storica nobiltà del cognome, col sangue principesco che gli traspariva dalle vene a fior di pelle, alle tempie e alle mani. Gli occhi di Giacinta si ostinavano a restar fissati alla striscia di cielo bianchiccio che si vedeva dalla finestra sul tetto della casa di faccia; e col mordersi leggermente ora un labbro, ora l’altro, ella mostrava di non aver voglia di parlare.

Il conte intanto stava sulle spine, arrabbiato contro quell’imbecille di suo suocero inchiodato lì sul canapè, senza accorgersi (ci voleva molto?) d’essere importuno.

Il signor Paolo, osservato il cielo anche lui, ruppe il silenzio:

— È tempo che non dura.

— Certamente — rispose il conte.

— Certamente — replicò Giacinta.

E fu stupita d’aver parlato. Si passava le mani sul viso per riscuotersi, e sbirciava di sfuggita il conte Giulio che agitavasi sulla poltrona dirimpetto, umettandosi colla punta della lingua frequentemente le labbra, scotendo coll’indice il ciondolo della catena dell’orologio. Allora, dalla paura che il suo babbo potesse andar via, ella gli strinse forte la mano. Ma il signor Paolo comprese a rovescio e balzò su dal canapè, ridendo a scossoni, maliziosamente:

— Ma che faccio io qui? Eh! Eh! Avete delle cosine da dirvi in segreto... perchè... perchè...