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figurina di donna, incipriata e scollacciata, colle labbra rosse rosse, dipinta nel medaglione del vaso di porcellana, fissandola con attenzione, come se non avesse avuto altro da fare: ora svoltando le grosse pagine dell’album, dagli orli dorati, senza nemmeno osservare i ritratti; ora accostandosi all’uscio per origliare fra il rumore lontano della festa che arrivava, indistinto, fin lì.

— Ballavano una mazurka!... Com’era eterna! E se sopraggiungeva qualcuno?... Giacinta tardava troppo... Già non doveva esser facile scomparire da una festa, con tanti noiosi attorno... E se non le riusciva? Fino a che ora doveva attendere?

Il cuore gli diè un balzo. Chi parlava nella stanza accanto? Trattenne il fiato; ma non afferrava le parole, non riconosceva le voci.

— Non posso; sto male. Trova tu qualche scusa, — diceva una di esse.

Era Giacinta!

Quell’altra persona aveva dovuto fare delle obbiezioni, perchè questa le rispondesse bruscamente:

— Te l’ho detto: non posso!

Poi non sentì più nulla. Erano andate via?

D’un tratto, Andrea vedevasi dinanzi Giacinta ritta in mezzo all’uscio spalancatosi senza rumore: una apparizione, nella semioscurità del salottino, con quell’abito di garza bianca, riccamente guarnito di svolazzi di trina, che le dava l’aria d’una forma fantastica.

Non osò d’accostarsele: ma visto che, portate le mani al viso, scoppiava in singhiozzi, si slanciò verso di lei e l’afferrò pei polsi, balbettando:

— Che cosa è stato?... Che cosa è stato?

Giacinta, trascinatolo nell’altra stanza, si era gittata bocconi sulla spalliera del canapè, piangendo