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E la signora Villa faceva passare in mano dell’Elisa o della sua mamma, i diversi capi di biancheria, rimestando, posando un oggetto, tornando a riprenderlo per far meglio apprezzare il merletto, un ricamo o la qualità di una stoffa.

Giacinta stava zitta. E quando la signora Villa rivolgevasi a lei, rispondeva con un sorriso sforzato, con un monosillabo, sì o no; nauseata dell’odore di biancheria nuova, della fredda sensazione di liscio che le faceva correre dei brividi per la schiena, come se quelle lenzuola di tela di Olanda dovessero servire a involgerla morta, fra una o due settimane; come se quelle camicie dallo sparato orlato di trine dovessero servire soltanto ad abbigliarla per l’ultima volta.

— E sarebbe meglio!... Sarebbe meglio! — ripeteva da sè, andando dietro alle amiche che volevano visitare l’appartamento degli sposi...

— Una cosa provvisoria — diceva la signora Teresa, conducendole a traverso le impalcature e gli arnesi di ogni sorta che ingombravano il passaggio.

Gli operai si fermavano, tirandosi da parte, per lasciar passare quegli strascichi di gonne che sollevavano della polvere dappertutto. La signora Villa saltellava, di qua e di là, sugli arnesi buttati per terra, cacciando dei piccoli gridi, ridendo, facendo delle moine per la paura di conciarsi il vestito o di vedersi cascar addosso qualcosa dai palchi sotto i quali bisognava passare.

— Oh! Quell’appartamentino diventava un gioiello.

— Una cosa provvisoria — ripeteva la Marulli — Giacinta si è innamorata della palazzina qui accanto, ed è stata così sciocca da farlo capire. I pro-