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l’«omo selvaggio» | 297 |
Le pareva un sogno la trasformazione della bottega, con gli scaffali dipinti in verde, con le cassette torno torno, e le vetrine, e tutti quegli arnesi, appesi negli spazi tra uno scaffale e l’altro, che le confondevano un po’ la mente, e non davano un momento di riposo a quel povero figliuolo, sempre con le braccia all’aria, sempre con le mani occupate a pesare, a involtare, a legare i pacchetti coi nastrini a due colori; novità quest’ultima che non si praticava in nessun’altra bottega in paese.
Due anni addietro, verso le sette e mezzo o le otto, secondo la stagione, bisognava chiudere la bottega con catenacci e spranghe di ferro e portar via il denaro della giornata, per evitare certe visite notturne che ormai erano diventate frequenti, visto che anche i signori ladri avevano perfezionato i loro strumenti di scasso.
Ora non più, dopo che suo figlio aveva comprato la bottega e la casa soprastante, e praticata una comoda scaletta interna. Chiuso con spranghe e serratura inglese l’uscio della bottega, dalla porta interna tutti e due montavano su, e ispezionate minuziosamente le quattro stanze, la cucina, e fatta una cenetta sbrigativa, se n’andavano a letto.
L’ultima a coricarsi voleva essere la mamma.