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ziente, ma non discreta quanto la prima; la serrata della porta, in poche settimane, era diventata un piccolo spettacolo pel vicinato. Don Ciccio, volendo evitare il pettegolezzo, aveva dovuto incaricare di quel confidenziale ufficio un uomo, il sagrestano di una chiesetta della via traversa. Ogni sera, egli andava a suonare le due ore di notte, e, al ritorno, passando davanti alla casa di don Ciccio — a quell’ora la via era deserta — dava una doppia mandata alla chiave della porta, poi la mattina all’alba, ripassando per andar a suonare la prima Messa, apriva lasciando nella toppa la chiave, che don Ciccio si affrettava a levar via.

Capite bene, caro cavaliere, che la curiosità degli sfaccendati era diventata vivissima. Si seppe anche del sagrestano; e allora don Ciccio non ebbe più pace.

— Perchè? Avete paura che vi scappino le pulci?

— La casa mia è pulita e pulci non ce ne sono.

— O dunque?

— Badate ai fatti vostri!...

E a qualcuno non diceva: «ai fatti vostri», ma una brutta parola.

I curiosi sono così: quando si accorgono che ogni loro insistenza non approda a niente, si stancano, cercano un nuovo pascolo alla loro stupida avidità. Per ciò, dopo qualche mese, nessuno si occupò più della serale chiusura a chiave della porta di don Ciccio. Se egli avesse avuto moglie, il fatto si sarebbe potuto interpetrare per atto di gelosia. Quando si è gelosi, non si ragiona. Ma don Ciccio era solo.

Una vicina andava a fargli le faccende di casa, gli preparava il desinare, il letto. Alla cena, molto semplice, pensava lui. E, durante la giornata, egli