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Non ci era riuscita mai, per quanti sforzi la sua bontà di animo avesse fatti.
Il giorno che Lupi, dopo un anno e mezzo, dovette lasciare Catanzaro, gli occhi di Carmelina si velarono di lacrime, come nello staccarsi dai parenti, guardando forse per l’ultima volta dallo sportello della carrozza le care montagne attorno, che era solita guardare dalla terrazza, allorchè canticchiava lassù, al sole, nella squallidezza della casa, che le aveva addormentato in seno ogni vano desiderio ed ogni giovanile illusione intorno all’avvenire.
Quella vita modesta ma dolce le era spesso tornata in mente, e nella nuova residenza di Taranto, dov’ella si sentiva come sperduta, l’aveva fin rimpianta.
Oramai però cominciava ad adattarsi, spossata da languori indefinibili, mezza assopita dal torbido silenzio, che la circondava in quell’abitazione dalle stanze piccole e basse, tra quei mobili vecchi, del tempo di Murat, che stonavano stranamente con le pareti imbiancate di fresco.
Tra i riflessi bianchi di quelle stanze, suo marito pareva più smorto quando tornava a casa dal Tribunale e le si sedeva di faccia o a lato, e la prendeva per le mani commosso come al primo giorno che le aveva rivolto la parola.
Ah, egli era sempre lo stesso!
E, dopo tre anni, continuava ancora a volerla seduta su le ginocchia come una bimba, e tornava a balbettarle parole mozze, da innamorato che si confonde e non sa parlare, intanto che le baciucchiava le palme delle mani, il braccio, il collo, dicendole:
— Vita mia!... Sole mio!...
Carmelina non si sentiva più irrigidire, non serrava i pugni e i denti, non s’abbandonava più come