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non avesse, camminava a fianco della mamma o del babbo, muovendo lentamente le gambette di ragno sotto il vestitino corto, con le braccia penzoloni e la bocca semi-aperta, come una grullina; e nei primi giorni del loro arrivo in Palermo, la gente si voltava per guardarli tutti e tre, curiosa di sapere chi potevano essere quelle strane figure.
Poi la loro storia si seppe, e la compassione fu tutta in favore della signora.
Quell’uomo l’aveva sposata senza dote, innamoratissimo, pur sapendo di non essere riamato; ed ora la gelosia lo rodeva vivo vivo, quantunque sua moglie fosse una santa. Non ricevevano visite, non ne facevano; vivevano, laggiù, a Porta Sant’Antonino, come chiusi in un carcere, in quel palazzotto silenzioso dalla facciata scura e massiccia, che pareva fabbricato apposta per loro.
Le vetrate dei terrazzini che davano su la via maestra, non s’aprivano mai. In certe ore della giornata, dietro i vetri, fra le tende bianche, si vedeva appena il profilo d’una testa di donna dai capelli neri, ma non si capiva se intenta a leggere o a lavorare; e, accanto, la bimba, seria e malinconica, appannava i vetri col fiato, segnandovi col ditino qualche cosa che sùbito scancellava, per ricominciare da capo. Più tardi, dietro quella finestra sempre chiusa, i vicini dirimpetto, che spiavano curiosi e maligni, vedevano comparire per un momento la faccia itterica del marito sotto il berretto di velluto nero; e allora mamma e figliuola sparivano, quasi colui avesse avuto paura di vedersi mangiare dalla luce quella moglie ancora giovane e bella, che i parenti gli aveano consegnata in mano, superbi della loro figliuola, vestita di bianco e coronata di fiori d’arancio, chiamata a salire così in alto.