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a casa vostra; e più amici di prima come suol dirsi.
La vecchia non rispose niente; fece un fagotto dei suoi quattro stracci, se lo mise sotto braccio, e uscì senza neppur salutarlo.
Appena partita lei, la cèchina chiamò:
— Babbo, babbo, vieni a sentirmi cantare!
— Ho indovinato dunque! — pensò il giardiniere.
E stette ad ascoltare la figlia: questa volta udì bene le parole. La cèchina cantava:
— Attendo, attendo, nella buia notte,
Ed apro l’uscio se qualcuno batte.
Dopo la mala vien la buona sorte...
Il resto non lo ricordo più!
— Chi ti ha insegnato questa canzone?
— Nessuno.
— E chi attendi nella buia notte?
— Non lo so.
— Come ti son venute in testa cantilena e parole?
— All’improvviso; una mattina... E non potevo frenarmi.
Il giardiniere era stupito.
— Babbo, perché non pianti il fiore che rende la vista?
— Figliola mia, non c’è giardiniere al mondo che lo conosca.
— Babbo, perché non innesti l’albero il cui frutto raddrizza le gambe?
— Albero e fiore te li sei sognati, forse; non ne ho sentito mai parlare.
Allora la cèchina riprese sottovoce:
— Attendo, attendo nella buia notte —
e cantato un bel pezzetto, chinò la testa su una spalla e s’addormentò.
Da quel giorno in poi, a mezzanotte, notte per notte, accadeva un fatto strano, si sentiva un gran picchio all’uscio. Il giardiniere balzava da letto, si affacciava alla finestra e domandava:
— Chi è? Chi cercate?
C’era il lume di luna e ci si vedeva benissimo;