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in mano, invece di sciabola, che dovevano gridare all’armi appena visto un topo.

Sulle prime, con quella caccia ai topi per diventare barone, fu uno spasso per tutto il regno.

Il Re, ogni volta che gli portavano al palazzo un centinaio di topi uccisi, traeva un respiro dal profondo del petto.

— Voi siete barone!

— Che mi vale, Maestà, l’esser barone, se non ho da mangiare? — disse una volta un contadino, che, invece di cento, ne aveva portati un mezzo migliaio.

— È giusto, — rispose il Re.

E gli fece un bel regalo.

Saputasi la cosa, tutti quelli che accorrevano al palazzo reale, ripetevano la stessa storia:

— Che mi vale, Maestà, l’esser barone, se non ho da mangiare? —

Ma il Re, ch’era un po’ tirchio, si seccò presto a dover far tanti regali; e all’ultimo rispose:

— Il decreto dice soltanto: sarete baroni. —

E il popolo ne fu scontento; molto più che, con tutti quei gatti per la casa, i quali miagolavano da mattina a sera, si viveva una vitaccia d’inferno. Ma Sua Maestà ordinava così; era forza ubbidirgli!