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capo; avevo Serpentina in pericolo, o la Reginotta che mi moriva di languore per Ranocchino, o il Re che faceva la terza prova di star sette anni alla pioggia e al sole per guadagnarsi la mano di un’adorata fanciulla.

Avevo anche la non meno seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel mio studio, per sapere quando la nuova fiaba sarebbe finita. Quei cari diavoletti, che poi mi si sedevano attorno impazienti, che diventavano muti e tutti occhi ed orecchi appena incominciavo: C’era una volta..., mi davano una gran suggezione. Pochi autori, aspettando dietro le quinte la sentenza del pubblico, credo abbiano tremato al pari di me nel vedermi davanti quelle vispe e intelligenti testoline che pendevano dalle mie labbra, mentre io tentavo di balbettare per loro il linguaggio così semplice, così efficace, così drammatico, che è l’eccellenza naturale della forma artistica delle fiabe.

Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non solamente come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d’arte.

Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto. Senza di esse non mi sarebbe passato mai pel capo di mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell’arte moderna.