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268 il cantico de' cantici

guta: essa possiede uno spiritualismo tutto proprio, riferibile più verisimilmente alla intima organizzazione de’ suoi verbi. I quali non hanno, a dir vero, che due tempi indeterminati, e quasi oscillanti fra il presente, il passato e l’avvenire: qualità che, come osserva un grande istoriografo vivente, conferisce miracolosamente al carattere di una poesia ispirata, nella quale il presente accenna sempre all’avvenire, ed entrambi si confondono nella eternità. Avviene pertanto che se l’Ebraico non è (come pur vuolsi) sì ricco e perfetto come il Sanscrito, nessuna altra lingua è più ridondante d’immagini e di tropi, nè più florida di vitalità poetica. Quei due tempi si avvicendano soventi volte in guisa ne’ verbi ebraici, che, nel breve giro d’un versetto, una stessa cosa è l’eco che va cupamente morendo nella notte del passato, e il primo grido della speranza, che penetra negli abissi dell’avvenire; e la ricordanza e la profezia si stringono insieme nell’angusto perimetro d’una frase.

Or tanto nella Volgata, quanto nella Traduzione de’ Settanta, si è avuto scrupoloso risguardo a codeste singolarità di atteggiamento della lingua ebraica, e, per quanto più spesso si è potuto, le si è consentito: e quest’avvertenza appunto ha fatto della Volgata quasi un miracolo di volgarizzamento. Parole e frasi rimangono ivi sempre di conio puramente latino, e nondimanco come ritraggon dappresso quell’aria orientale e fatidica, che aleggia su i libri santi! lo non ho saputo persuadermi perchè nell’italiana non potesse accadere altrettanto; ed ove nel testo mi sono