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266 il cantico de' cantici

cezionale del Cantico dei Cantici, io mi sono andato ingegnando di rendere con ogni possibile fedeltà nel mio volgarizzamento. Avrei potuto facilmente risolvere tutto il componimento in una piana ed uniforme graduazione di tinte, sol che avessi voluto qua attenuare la luce che sbatte vivissima su talune immagini, e là lumeggiarne altre con tocchi più acuti e frizzanti, come si è pur fatto da parecchi; ma avrei allora disonestamente svisata la fisonomia dell’originale. Una traduzione non è che un ritratto, nè più, nè meno. Quando l’artista ha condotte sulla tela, e poniamo pure fedelissimamente, le più minute accidentalità della figura che vuolsi ritratta, egli non avrà fatto che un bel nulla, se nella copia non avrà trasfuso il sentimento, la vita, il carattere, che campeggia sul volto dell’originale.

Nè mi son lasciato soverchiamente imporne da un oltrespinto risguardo alla indole diversa della nostra favella. Non è, certo, l’originale, che dee servire (e soventi volte a costo della tortura!) all’esigenze dell’idioma, nel quale si desidera voltato: e se le condizioni della lingua d’Italia non mi avessero consentita questa necessaria deferenza all’indole estetica della Cantica di Salomone, non ci sarebbe stata altra strada a battere, tranne quella di non batterne alcuna, e rimanersi a dirittura dal lavoro. Il leale e longanime volgarizzatore dee contemperare in guisa i colori della propria favella, che punto non iscadendo dal candore nativo, riflettano schiettamente la luce di quella lingua, nella quale l’originale fu scritto. Così il co-