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appendice 177
Quel si pensoso è Ulisse, affabil ombra,
che la casta mogliera aspetta e prega;
ma Circe amando gliel ritiene e ’ngombra.

Dietro a questo puoi notare il seguente, ch’è d’Angelo di Costanzo1: «Che quel chiaro splendor ch’offusca e ingombra, Quando vi mira, ogni piú acuto aspetto (cioè vista), D’un’alta nube la mia mente adombra». Ed altri molti ne troverai della medesima forma, leggendo i buoni scrittori; e vedrai come anche si dice «ingombro» nel significato d’«impedimento» o di «ostacolo»; e se la Crusca non s’accorse di questo particolare, o non fu da tanto di spiegarlo, tal sia di lei.

St. VI, v. 12.      E correr fra’ primieri
(v. 113)      pallido e scapigliato esso tiranno.

Del qual tiranno il nostro Simonide avanti a questo passo non ha fatto menzione alcuna. Il volgarizzatore antico dell’Epistola di Marco Tullio Cicerone a Quinto suo fratello intorno al proconsolato dell'Asia2: «Avvegnacch’io non dubitassi che questa epistola molti messi, ed eziandio essa fama, colla sua velocitá vincerebbono». Queste sono le primissime parole dell’epistola. Similmente lo Speroni3 dice che «amor vince essa natura» volendo dir «fino alla natura».

Ivi, v. 14.           Ve’ come infusi e tinti
(v. 114)      del barbarico sangue.

«Infusi» qui vale «aspersi» o «bagnati». Il Casa4: «E ben conviene Or penitenzia e duol l’anima lave De’ color atri e del terrestre limo Ond’ella è per mia colpa infusa e grave». Sopra le quali parole i comentatori adducono quello che dice lo stesso Casa in altro luogo5: «Poco il mondo giá mai t’infuse o tinse, Trifon, nell’atro suo limo terreno». Ho anche un esempio simile a questi del Casa nell’Oreficeria di Benvenuto Cellini6, ma non lo tocco, per rispetto d’una lordura che gli è appiccata e non va via.


  1. Sonetto 13.
  2. Firenze, 18 5. p. 3.
  3. Dialoghi d’Amore. Dialoghi dello Speroni (Venezia, 1596), p. 3.
  4. Canzone 4, stanza 3.
  5. Sonetto 45.
  6. Capitolo vii (Milano, 1811, p. 95).