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poesie postume | 251 |
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Odo, Venezia, odo bene come ti sdegni meco: l’antidoto del tuo male son io! Guai a quell’infermo, a cui l’antidoto aggiunge infermitá! Tu non mi conosci. Sappi ch’io non parlo per mio interesse né per amicizia e amore del clero, il quale in tutta la vita mia m’afflisse con guai indicibili, ch’a pochi martiri cedo di tormenti, ma a tutti, di coscienza buona. Pur sappi ch’io tanto amo la gloria d’Italia, che nel papato si serba (altrimenti saria tutta schiava de’ forastieri, come son l’altre sue membra), e tanto amo Venezia, ch’è l’onore d’Italia, fiore verginale illustrissimo, che non posso star senza dolermi, e per il mio buono affetto intendo in cielo quel che parlo in terra. Io son quello che di te cantai tanto altamente:
Nova arca di Noè, che mentre inonda, ecc.1.
Tu sai ch’io non sono uomo venduto, e che mai ti dimandai né per me né per altri un quattrino, come li Sannazzarri e gli Aretini e Berni, che hai onorati generosamente; ma solo ho parlato per dire il vero e per eccitar la virtú con la laude a maggior prove. Cantai ancora altrove, facendo paragon tra greci e latini, che tu sola avanzi tutta la Grecia di senno, di valore, di maraviglie: «balena in mare, leone in terra, alata in cielo, maestra delle genti col Vangelo in mano e, con la forza, domatrice delle nazioni ribelle a quel che insegni».
Dunque avverti ch’ora io ti dico il vero. Io son tuo geloso innamorato castissimamente. Tu ti spogli dell’ale, tu getti il Vangelo, tu disarmi il leone, e converti la tua forza contra le tue viscere, e perdi, non t’avvedendo, la gloria verginale. — Ah! ah!
- ↑ Si veda sopra nella Scelta, p. 90 [Ed.].