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poesie postume 243

4
Dunque dovessi un tal ricetto a tanta
grandezza del mio cuor, ch’ama in eterno?
Empio! tu ’l sai con quant’onor, con quanta
fede osservai le leggi e ’l tuo governo:
governo iniquo, ov’il velen s’ammanta
tra poco dolce, ov’è sol frode e scherno
in giuste leggi, in cui s’è terminato
che si debba ferir un disarmato.
5
Sol mi debbo lodar che pur talvolta
ivi pervenni, ove tu scherzi e ridi.
Ma che miracol fu, se molta e molta
turba nel luogo stesso ergi ed affidi;
e qual obbligo fia, se rotta e sciolta
la fé dell’empio cor subito vidi,
e quinci e quindi i fraudolenti amori
divisi e sparsi in velenati cuori?
6
A te dunque mi volgo, ingorda arpia;
di te giusta cagion ho di dolermi.
Misera! or chi ad amar si mosse pria?
Pria tu, che l’amor tuo festi vedermi
e con lettere e segni; il cielo udia
d’Amore i colpi e i fragili tuoi schermi,
e con tanti sospir, con tai parole,
che fatto avriano in giú calar il sole.
7
Ahi quante volte le rilessi il giorno,
e quante volte accesero i desiri!
Le baciava talor, talor intorno
l’irrigava di pianto, e co’ suspiri
poi rasciugava. Allor palese fôrno
le mie pene amorose, i miei martiri.
Esse ben sanno il fido petto mio,
esse l’instabiltá del tuo desio.