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118 | scelta di poesie filosofiche |
Né mi si potria dir mai ch’io fosse empio,
se da te, che mi scacci in tanto scempio,
a chi m’invita mi rivolgerei.
Deh, Signor, io vaneggio; aita, aita!
pria che del Senno il tempio
divenga di stoltizia una meschita.
In questo primo madrigale di questa canzone mirabile confessa che sempre fu esaudito al contrario da Dio; e che però e per la legge fatale, che non si rompe mai, non doverebbe piú pregare: ma, vedendo che non ci è altro rimedio né altro Dio a chi ricorrere, torna alle orazioni solite, con pentirsi di questo, di dire che, se ci fosse altro Dio, anderebbe a quello, ecc. Egli par diventar pazzo; e che l’anima sua, tempio della Sapienza divina, si fa meschita di stoltizia.
madrigale 2
Ben so che non si trovano parole
che muover possan te a benivolenza
di chi ab aeterno amar non destinasti;
ché ’l tuo consiglio non ha penitenza,
né può eloquenza di mondane scuole
piegarti a compassion, se decretasti
che ’l mio composto si disfaccia e guasti
fra miserie cotante, ch’io patisco.
E se sa tutto ’l mondo il mio martoro,
il ciel, la terra e tutti i figli loro;
perché a te, che lo fai, l’istoria ordisco?
E s’ogni mutamento è qualche morte,
Tu, Dio immortal, ch’io adoro,
come ti muterai a cangiar mia sorte?
Qua argomenta ch’e’ non dovesse pregare: primo, per lo fato risoluto nell’eterna volontá; secondo, perché non ci è eloquenza che possa persuader Dio; terzo, perché quel che vuol dire, lo sa tutto il mondo, tanto piú Dio, che lo fa o permette, ecc.; quarto,