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grandi importanti a questo tempo; e se repugna allo spirito, Dio li mandará successore. Ed alla persona di Vostra Beatitudine ho cose particolari d’avvisare per suo bene e del publico; e s’io mento ci è fuoco e forca per me; ché questo è più spedito modo d’occidermi che la finta ribellione ed eresia. E così m’obligo, ché non parlo per allungar o fuggir morte ma per veritá e ben del publico. Io non posso qui confessar le mie peccata, perché «non sunt aequa iura, et procul esto ab homine potestatem habente occidendi et non vivificandi», come questi giudici, dice il Savio. E s’io fossi eresiarca, potrei meritar perdono in terra per l’util che posso fare, avendolo in cielo; però in buona teologia non posso risponder in questo giudicio. Né la mia morte può smorzare la sètta che dicono io aver fatto; ma li fatti nobili che propongo, «et excellens in arte non debeo mori de iure gentium, et facta infecta esse non possunt», dice Platone: «ideo punitur reus non quia peccavit, sed ne amplius peccet ipse vel alius suo exemplo». Ed io per li guai di sette anni ho purgato, e farò ch’altri s’emendi e non pecchi; ed ho parola del cielo a tutta santa Chiesa, ed a Vostra Beatitudine in particolare, né posso scriverle senza sua licenza, «Agnosce quae dico, nam non est Deus dissensioni etc. nec timoris etc.». Dio le doni prudenza e prosperitá a beneficio universale. Amen.
[Neapoli,] die 13 augusti 1606.
Al Santo Officio in questo luogo io non voglio respondere; però, piacendole, Vostra Beatitudine non doni questa carta al Santo Officio, s’io non parlo a lei.
Fra Tomaso Campanella, |
Dopo questo ebbi la nuova di Venezia, e scrivo la carta seguente, dicendo ch’assai piú ho da dire, e che li veneziani facendo risposte e libri saran la propria ruina, ché schifando il