Pagina:Callimaco Anacreonte Saffo Teocrito Mosco Bione, Milano, Niccolò Bettoni, 1827.djvu/53

E per cangiar del rio proposto insano
     L’audace Erisittone, a lui si accosta
     Con questo favellar soave e piano:
Figlio, desio de’ tuoi, deh! figlio, sosta,
     Deh! non guastar queste corteccie avanti,
     Son sacre a Numi, i tuoi sergenti scosta;
Potresti penitenza averne e pianti,
     Se Cere se n’addasse, a cui sacrati
     Sono i dì della pianta, che tu schianti.
Con quelli truculenti occhi affocati,
     Che suol leena a cacciator di Tmaro
     Posata al nido de’ suoi crudi nati,
Del cui piglio non ha altro più amaro,
     Squadrolla, e cominciò: Vattene, o certo
     Proverai come fenda questo acciaro.
Da quella trave mi sarà sofferto
     Il coverchio d’ostel, che dovrà stare
     Sempre a letizia di convivi aperto.
Nemesi registrò l’empio parlare,
     Arse la Diva e Cerere mostrossi,
     E dalla terra al ciel parve arrivare.
Da riverenza e da spavento mossi
     Subitamente diedero al terreno
     Le scuri e al bosco i fuggitivi dossi.
La Diva un guardo non piegò nemmeno
     Alle genti, che quinci ivan lontane,
     Poichè necessità seguita avièno,
E volta al capitano: o cane, cane,
     Stanza prepàra a tue cene gioconde,
     Avrai da dimandar spesso del pane;
Per le viscere allor, per le profonde
     Midolle foga di voraci brame
     Immensa insaziabil gli diffonde.
Parver le gote lì pallide e grame
     Per quella subitana Erinni edace,
     Che germogliava in lui da cibo fame.