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Deh! taci, o Musa, e cose che di pianto
Furon cagione a Cerere e di pena,
Argomento non sian del nostro canto.
Più bello è dir come cittadi affrena,
O Trittolemo scorge ai campi avari,
O per messi recise i gioghi mena,
E meglio memorare i casi amari
Della prole di Triope, laonde
I Numi a riverir ciascuno impari.
Vivean Pelasghi per le sacre sponde
Dell’ombrifero Dozio, ove fioria
Tale una selva di conserte fronde,
Che non avrebbe a stral data la via:
Quivi poma soavi ed olmi e pini,
E chiara come l’ambra onda natia.
Tanto Cerere amò questi confini,
Che men la piaggia Triopéa le piacque,
Meno i campi dell’Enna e gli Eleusini.
Quando il cielo segnò l’ora che spiacque
A qualche Dio di Triope la schiatta
Il mal talento in Erisitton nacque,
Che una man di sergenti ebbe là tratta
Armata di bipenni e di securi,
Una cittade intera avrian disfatta.
Ivi un bel pioppo fea coi rami oscuri
Incontro alla solar ferza molesta
Balli di ninfe a mezzo dì sicuri.
Asce e bipenni pria posero a questa,
Laonde rimbombò sinistro carme
Ad ogni stel per tutta la foresta.
Come sentito il risuonar dell’arme
Ebbe la Diva, in grande ira si accese,
E gridò: chi mie piante osa schiantarme?
Della vecchia Nicippe aspetto prese,
Alle bende, ai papaveri di mano
Diede, e la chiave agli omeri sospese;