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LE LENE, OVVERO LE BACCANTI
Idillio XXVI
Ino, Autonoe, ed Agave, che le guance
Pari alle mele avea, scorgeano al monte
Tre, ch’erano, tre schiere. Ivi brucate
D’irsuta quercia le selvaggie foglie,
Ellera viva, ed umile asfodillo.
Fero in netto pratel dodici altari,
A Semele tre d’essi, e nove a Bacco.
E tolti d’un canestro i sacri doni
Ben lavorati gli locâr con preci
Su i nuovi altari, come avea mostrato
Bacco medesmo, e come a lui piacea.
Da un’ardua rape il tutto rimirava
Penteo nascoso fra un lentischio antico,
Germoglio di quel suol. Lo vide in prima
Autonoe, e mise orrende grida, e ratta
Co’ piè turbò del furibondo Bacco
L’Orgie vietate a profan’occhio. In furia
Ella levossi, e con lei tosto l’altre.
Penteo si pose sbigottito in fuga;
Ma quelle l’inseguir co’ lunghi manti
Fra le polpe e la cintola raccolti.
Penteo lor disse: E che vi manca, o donne?
Autonoe replicò: Prima d’udirlo
Te n’avvedrai. La madre allor troncando
La testa al figlio alto muggì, qual mugge
Lionessa di parto. Ino gli svelse
Con l’omero il gran tergo, e i piè cacciògli
Sul ventre; Autonoe tenne un metro stesso.
E l’altre donne si partir fra loro
Quanto restò di carne, e tutte intrise
Di sangue a Tebe se n’andar recando